Georges Contogeorgis
Il fenomeno autoritario in Europa
Ho intenzione di trattare il soggetto del fenomeno autoritario in Europa in tre parti: in primo luogo, presenterò il contesto storico in cui il fenomeno autoritario si è sviluppato in Europa; in seguito, abbozzerò una sorta di tipologia di fenomeno autoritario in senso ampio. Infine, tenterò di spiegare il fenomeno autoritario moderno, in relazione con le teorie moderne che hanno provato ad interpretarlo, e tenterò anche di situare la mia spiegazione in un contesto evolutivo del cosmosistema globale.
1. Il contesto storico del fenomeno autoritario
In generale, la modernità è convinta che il nostro periodo storico, che definirei cosmosistemico, non rappresenti una fase di pochi secoli, bensì un'epoca di lunghissima durata. Inoltre, ben più grave, viene insegnato che il mondo moderno è passato immediatamente dallo stadio primario, ovvero la proto-genetica, del suo sviluppo antropocentrico, allo stadio finale, quello conclusivo, che corrisponde alla democrazia[1]. Si elude il fatto che l’evoluzione sociale è soggetta ai parametri che reggono gli esseri umani in generale: il passaggio dalla nascita alla maturità costituisce un processo che dipende non da una decisione ma dalla natura del fenomeno.
Certo, la costituzione delle società moderne su grande scala cosmosistemica non le legittima, solo per questo, a pretendere di essere passate alla realizzazione della maturità antropocentrica[2]. La democrazia è il sistema che attribuisce la libertà globale (ovvero, individuale, sociale e politica) agli esseri umani; le società contemporanee conoscono solamente la libertà individuale. Quindi è ovvio che quello che giustifica in realtà il fenomeno autoritario apparso nei paesi europei, è il carattere proto-antropocentrico dell’epoca moderna: la società dei cittadini è accantonata nel settore privato e il sistema politico si identifica nello Stato. Ecco che cosa rende il sistema moderno puramente pre-rappresentativo.
Per comprendere la natura del fenomeno autoritario in Europa, bisogna trattare della libertà politica, che durante questa fase è completamente assente come progetto di società e come realtà. Intendo per libertà politica il progetto di autonomia politica della società dei cittadini. Mi allontano, quindi, dalla modernità che tende a definire la libertà individuale in termini di autonomia, e a concepire la libertà sociale e politica come diritti[3]. Tuttavia, i diritti aiutano a proteggere la conquista della libertà individuale in un contesto socio-politico in cui il cittadino non beneficia di autonomia/libertà. L’individuo libero dotato di diritti socio-politici occupa un posto eteronomico, si situa al di fuori del sistema. Tale esclusione della società dei cittadini dal sistema politico moderno è in armonia con la dottrina generale che lo vede incarnato interamente dallo Stato. Insomma, l’autonomia politica è riservata allo Stato/sistema, non alla società.
Il secondo punto, all'interno di queste osservazioni generali, è che la legittimazione del detentore del potere da parte della società si compie in funzione del suo progetto sociale. Il progetto politico della società si limita al controllo del potere da parte delle forze che gli sono vicine; non è legato alla libertà politica. Ecco, quindi, perché la questione della legittimazione del potere con il voto o con il consenso generale della società non acquista un’importanza capitale nel corso della prima metà del XX secolo.
Questo ci dice che il fenomeno autoritario è considerato una deviazione del punto di vista delle prospettive a lungo termine in cui si iscrivono le società moderne, e non dal punto di vista della realtà transitoria che esse vivono nel corso del XIX e XX secolo[4]. Poiché lo Stato è sovrano, ovvero detentore puro e semplice del sistema politico, la relazione tra il sociale e il politico è dicotomica. L’incontro del sociale e del politico si realizza al di là del sistema, ovvero a livello extra-istituzionale, nella dinamica del sociale. Ecco perché la stabilità del regime si misura in funzione della presenza di forze intermediarie nella dinamica politica, e non con la natura democratica del sistema[5]. Il sistema politico in atto non garantisce la società dalle tendenze autoritarie del potere.
Si presume quindi che la questione dell’autoritarismo si ponga nel contesto di un sistema politicamente sovrano. È il caso del sistema pre-rappresentativo moderno che corrisponde, bisogna ricordarlo, alla fase antropocentrica primaria dell’umanità. In questo contesto, bisogna notare che l’affiliazione dello Stato sovrano con l’autoritarismo dipende dal peso delle forze sociali intermediarie nel contestare l’autonomia del potere sovrano. E ciò avviene perché la società dei cittadini non costituisce una categoria politica. Al contrario, se il sistema fosse costruito sulla base dell’autonomia della società, se quest’ultima fosse un partner istituzionale del sistema, ovvero se la società partecipasse al sistema, in modo da dirigere i propri interessi, la questione non si porrebbe. Comunque sia, nel contesto del sistema moderno che, come si è detto, non può essere definito rappresentativo o democratico, si constata che il progetto prioritario della società è sempre stato orientato verso la libertà individuale. Il progetto sociale puntava a sostenere il consolidamento di tale libertà e non l’autonomia del cittadino in materia sociale e politica. La richiesta di “oggettivazione” della legge e dell’esercizio della giustizia, ciò che si definisce “Stato di diritto", o anche il progetto sociale orientato allo “Stato provvidenza”, che mira alla protezione del lavoro, dello statuto sociale degli individui ecc., si iscrive in tale prospettiva. Il semplice diritto di voto, non bisogna dimenticarlo, è stato riconosciuto come una conquista universale per l’uomo solamente alla vigilia della Prima Guerra Mondiale.
In generale, si può affermare che il XX secolo è stato consacrato al consolidamento dell’esperienza antropocentrica, ovvero della libertà primaria, quella individuale. Quindi, parlare in generale di società libere, come si suole fare oggi, significa nascondere il fatto che la libertà non è un concetto immobile, che costituisce un concetto sviluppatosi nel contesto evolutivo della società antropocentrica: dalla libertà individuale si passa alla libertà sociale e alla libertà politica, ovvero alla libertà nel senso globale del termine.
Le ideologie socialista e liberale costituiscono due vie differenti della transizione antropocentrica delle società moderne. Il liberalismo considera tale evoluzione a lungo termine, per stadi ; il socialismo sceglie la via della rottura, poiché le società che hanno optato per il socialismo, ossia per la rivoluzione socialista, sono delle società in ritardo in tale evoluzione. L’ipotesi moderna secondo cui queste due ideologie incarnano dei progetti di natura opposta e, secondo Marx, delle fasi successive, una superiore all’altra, non ha alcun fondamento. Si tratta di ideologie sorelle che si basano su cammini differenti nel passaggio dal dispotismo (del Medio Evo, del feudalesimo, del dispotismo assolutistico in seguito), al mondo antropocentrico. La sfida, quindi, tra queste due ideologie si fondava sul controllo del sistema della proprietà nell’economia, da parte del privato o dello Stato; non metteva in questione la natura del sistema, e ancor meno quella del sistema politico. In altri termini, queste due ideologie non consideravano i sistemi economico e politico dal punto di vista della libertà sociale e politica, ovvero dell’integrazione della società al loro interno.
I sistemi economico e politico sono sempre visti dalla modernità dal punto di vista dell’Ancien Régime: il sistema è considerato, per definizione, proprietà di qualcuno, la società non rientra in tale problematica. Il fatto, quindi, che, a differenza del sistema feudale, la società abbia già acquisito la propria libertà individuale, prevede che il suo incontro con il sistema moderno venga stabilito sulla base di un contratto formale, in economia (il contratto di lavoro), o informale o dedotto, in politica (il cosiddetto contratto sociale cui ci si riferisce dall’epoca dell’Illuminismo). È in virtù di tale malinteso che si accusa ancora il capitale come base dello sfruttamento, e non come proprietà del sistema[6]. Ad ogni modo, il progetto di società non arriva a contestare, ancor’oggi, il fondamento dispotico del sistema, né a esigere una relazione tra il sociale e l’economico, il sociale e il politico, fondata sulla libertà, in modo che la società divenga un partner integrale del sistema.
2. La tipologia del fenomeno autoritario
In questo contesto, si è proposta una tipologia del fenomeno autoritario che mostra come le società europee evolvono verso l’antropocentrismo moderno. In primo luogo, fino al XIX secolo, le società europee sono dominate dall’assolutismo. Nel XX secolo, soprattutto prima della Seconda Guerra Mondiale, è il totalitarismo che prevale nella maggior parte delle società europee. Poi, dopo la Seconda Guerra Mondiale, sono gli autoritarismi con fondamento militare, oltre alla sopravvivenza dei totalitarismi del periodo precedente.
Ognuna di queste “deviazioni” rappresenta una fase di transizione della modernità dal dispotismo all’antropocentrismo. L’assolutismo è la fase del dispotismo di Stato che assomiglia al paradigma del “dispotismo asiatico”, ma che, al contrario, nel caso europeo presenta un carattere profondamente transitorio. Il fenomeno assolutista compare dopo il dispotismo privato, quello medievale, e continua fino alle soglie del XX secolo. In virtù di questo sistema, il monarca si pone come sovrano assoluto e, di fatto, come il proprietario dello Stato, compreso il sistema politico.
Il fenomeno totalitario appare nel momento in cui l’antropocentrismo (le società stabilite in termini di libertà) sta prendendo il sopravvento nel mondo europeo, sulla dinamica dispotica precedente. Durante questo periodo, osserviamo fenomeni molto interessanti dal punto di vista della relazione tra il sociale e il politico. Lo Stato diventa, più o meno, una entità legale, benché continui a incarnare il sistema politico senza spartirlo. Poiché la società legittima con il voto, divenuto universale, la classe politica, quest’ultima afferma che il sistema politico è rappresentativo. Ora, perché un sistema politico sia rappresentativo, bisogna riuscire a mostrare che la rappresentatività viene applicata al rapporto tra il sistema e la società. Ma lo Stato moderno vuole rappresentare la nazione, non la società, l'interesse generale o pubblico, non l'interesse comune. Così, la classe politica, con “l’invenzione” di questa formula, che è certamente originale, ma, dal punto di vista logico, assurda, è riuscita a convincere l’elettorato che il fatto di essere allo stesso tempo rappresentante e rappresentato non tocca la natura del sistema. Insomma, il diritto di voto, privo di contenuto rappresentativo, è concepito dalla società non come un segno di libertà, ma come un atto di fiducia di fronte alla politica dello Stato che si dichiara a favore del suo progetto sociale.
Il progetto di società del nazismo è nettamente paradigmatico. Si basa sul “nazionale”, ovvero sulla coesione omogeneizzante della società globale, e sulla “questione sociale” che promette di forgiare la società antropocentrica. La politica costituisce, dal canto suo, il dominio esclusivo del leader. Con il totalitarismo si cerca di recuperare il ritardo di fronte al mondo europeo derivante dal cosmosistema ellenico. In effetti, il nazismo corrisponde a una società antropocentricamente arretrata in confronto alla media europea dell’epoca. La società tedesca, così come quella russa, hanno tardato ad entrare nel processo antropocentrico. Inoltre, tedeschi e russi si sentono isolati tra potenze europee che, avendo preso parte all’esperienza greco-romana, li avevano superati nella transizione antropocentrica, e si ponevano allora come leaders del mondo nuovo. In ogni caso, il nazismo e il fascismo rivendicano l’appropriazione totale dello Stato, il che assomiglia all’assolutismo, ma attingono la loro legittimità in una società già divenuta antropocentricamente libera. Il fascismo risponde piuttosto alla questione nazionale, ossia al bisogno di consolidamento dell’unità italiana, che è contestata dalla dinamica centrifuga delle città.
Il totalitarismo nazista e quello fascista non contestano l’economia privata, ovvero il liberalismo. Si scontrano con quest’ultimo a livello politico. Lo Stato totalitario professa la messa in atto di una relazione non mediata con la società, ovvero senza forze socio-politiche intermediarie. Concorda con il liberalismo sullo statuto privato della società, come anche sul carattere sovrano dello Stato. Non elimina le forze intermedie, le recupera (i partiti politici, i sindacati, ecc.) e intende concentrare la politica nello Stato, senza alcuna separazione[7]. È per questo motivo che si è presunto che con la soppressione del pluralismo partitico si sarebbe soppressa la politica.
Il socialismo totalitario, adotta anch’esso il progetto di appropriazione delle forze intermedie e di monopolizzazione totalitaria della politica dello Stato attraverso gli agenti del partito comunista. Tale appropriazione comprende ovviamente anche il sistema politico. Ma, diversamente dal totalitarismo liberale, raccomanda, inoltre, l'appropriazione del sistema economico da parte dello Stato nella sua totalità. Da questo punto di vista, il socialismo reale assomiglia al dispotismo asiatico, da cui si differenzia certamente per il fatto che la società non è più sottoposta a servitù, ma è formalmente libera.
Nazismo e socialismo reale presentano una particolarità distintiva legata alle circostanze storiche delle loro rispettive società. Il socialismo reale progetta la soppressione da parte dello Stato – cosa che non avviene nel nazismo - del dispotismo socio-economico e politico del passato. La Germania, essendo più avanzata da questo punto di vista, non aveva bisogno di un progetto che prevedesse l’abolizione del feudalesimo, come nel caso della Russia.
3. Il fenomeno dittatoriale e la teoria dello sviluppo
Il periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale costituisce una fase durante la quale il sistema pre-rappresentativo, progettato dalla Rivoluzione Francese e dall’Illuminismo, tende a consolidarsi. Tale sistema, definito liberale, si scontra con il socialismo reale, mentre entrambi si dichiarano, senza mezzi termini, rappresentativi e democratici al tempo stesso, sempre lasciando le vesti sia di mandante sia di mandatario allo Stato.
Durante questo periodo, nel continente sono presenti due tipi di dittature: le dittature iberiche e il regime militare greco. Questi due tipi di dittature si differenziano essenzialmente per il loro fondamento, ma soprattutto per la loro giustificazione. Gli autoritarismi iberici costituiscono il prolungamento dei totalitarismi del periodo precedente alla Seconda Guerra Mondiale, ormai divenuti dittature. Si situano quindi nella fase di transizione europea che ha condotto, tutto sommato, al consolidamento dei sistemi pre-rappresentativi.
Il sistema autoritario greco costituisce, al contrario, una dittatura militare che, nell’insieme dello Stato greco, rappresenta un intervallo, ovvero una parentesi non giustificata dalla maturità politica della società. In effetti, il sistema politico greco è il primo in Europa a realizzare gli elementi fondativi della pre-rappresentazione: il suffragio universale, sin dall’inizio (1821 e in seguito); il sistema partitico pluralista o pluriclasse, contrariamente al sistema delle classi che prevale nelle società europee occidentali; un comportamento politico fondato sull’individualità politica e non sulla concezione delle masse; un progetto sociale redistributivo, che non ha niente a che fare con la transizione dal dispotismo all’antropocentrismo; una contestazione del personale politico che corrisponde alla maturità rappresentativa del rapporto tra la politica e il sociale[8].
Nonostante queste fondamentali differenze, bisogna precisare che i sistemi autoritari della Guerra Fredda hanno tutti una giustificazione esogena. In realtà rivelano il deficit “democratico” dei paesi che dirigono il complesso bipolare dell’epoca.
La giustificazione teorica di queste dittature è interessante. Il principio generale tenta di giustificare la supremazia della potenza e non della libertà. Secondo questa motivazione, non è possibile che le vittime della potenza esogena abbiano una maturità “democratica” maggiore di coloro che assicurano la leadership del mondo e in questo caso della modernità. Per fondare questa dottrina, si è inventata l’idea della divisione dell’Europa in “Nord" e “Sud” in seguito alla distinzione tra “Centro” e “Periferia”[9].
Si è ricorsi alla teoria dello sviluppo per sostenere questa distinzione, che lega lo sviluppo politico allo sviluppo economico. Si è avanzata, all’epoca, la teoria secondo cui al di sopra dei 3000 dollari di reddito pro capite, il sistema è democratico e stabile. Al di sotto, le società non sono idonee a sostenere il progetto “democratico”, ecco perché il sistema è instabile, se non addirittura rivolto al fenomeno autoritario[10].
Quindi la teoria dello sviluppo mette in causa la contestazione. La teoria afferma che se il sistema in atto non è legittimato, la società non ha alcun fondamento “democratico”. Tuttavia, tale approccio non specifica il contenuto della contestazione. La società greca ad esempio contestava un’istituzione feudale, la monarchia, l’impossibilità di un’alternanza al potere voluta dalle potenze dell’epoca e la dottrina dell’indipendenza limitata. La dittatura ellenica fu imposta nel momento in cui le forze del centro-sinistra raggiunsero il controllo della vita politica del paese e iniziarono a proibire le pratiche anticostituzionali del trono. Così, i paesi del nord, soprattutto quelli anglosassoni che accettano la monarchia e che si adattano all’alternanza al potere di forze che seguono la scia del bipolarismo, sono considerate più democratiche.
4. Sviluppo antropocentrico e comportamento politico
Un altro esempio molto significativo per illustrare le mire ideologiche della teoria dello sviluppo è quello del comportamento politico, e più in particolare della partecipazione politica. Questo punto presenta attualmente un grande interesse nell'evidenziare la via attraverso cui evolve il sistema politico moderno.
L’idea della partecipazione politica in generale è elaborata dalla modernità in termini di partecipazione alla dinamica politica e non al processo del sistema politico in sé. Non esiste alcun progetto di integrazione della società nel sistema politico. La dicotomia tra sociale e politico non viene contestata. La questione quindi si limita oggi alla partecipazione dell’individuo nella dinamica del sociale di fronte ai detentori del sistema politico. Questa partecipazione politica extra-istituzionale del sociale viene chiamata democrazia partecipativa. È evidente, quindi, che è il qualificativo “partecipativa” che definisce il sistema e non il termine di “democrazia”. Perché il sistema democratico, inizialmente, si identifica nella società dei cittadini che, in tal modo, detiene la competenza politica universale.
Tale osservazione vale anche per l’approccio alla politicizzazione della società. La politicizzazione si misura sulla “statistica”, ovvero sulla partecipazione del cittadino ai partiti, ai sindacati, alle forze di mediazione in generale, e non con il tempo reale che questi consacra alla politica[11]. Ad esempio, la società greca a livello di partecipazione a partiti e sindacati, si situa molto in basso nella classifica dei paesi europei. Se consideriamo invece il tempo reale che viene consacrato alla politica, supera di molto ogni altra società del Continente. Mi riferisco ad uno studio del 1993, che dimostra che la domanda politica della società greca attraverso i media è stata di undici volte superiore a quella della società francese, e di tredici volte superiore a quella belga.
La prima forma di politicizzazione, misurata secondo la partecipazione alle forze di mediazione e che rievoca il comportamento delle masse, rimanda a un sistema pre-rappresentativo. La contestazione, in questo caso, si focalizza sulla politica seguita dalle forze politiche; i fondamenti del sistema le sfuggono. La seconda deriva da un’eredità in cui la società greca era posta all’interno del sistema politico e che raccomanda, quindi, un comportamento politico di tipo quantomeno rappresentativo, che tuttavia non viene conferito dal sistema. È un esempio estremamente interessante che illustra come lo sviluppo politico non possa essere associato unicamente allo sviluppo economico. Ormai, non si tratta più solamente della società greca, che con la sua eredità smentisce tale asserzione; altre società europee forniscono degli esempi analoghi: la società francese è politicamente più avanzata della società tedesca o inglese, eppure a livello economico presentano dei paradigmi equivalenti. In ogni caso, la politicizzazione deve essere misurata con il tempo reale consacrato alla politica nel quotidiano e, comunque, è funzione del sistema politico in questione.
Ho insistito sul fondamento ideologico, piuttosto che scientifico, dell'approccio al fenomeno autoritario, poiché ci si accorge che le stesse spiegazioni, addirittura gli stessi stereotipi, si riproducono al giorno d’oggi. Il “Nord” si attacca alle conquiste dello “Stato di diritto”, dello “Stato provvidenziale” e, anche, al sistema politico pre-rappresentativo in atto, tentando di riscriverli in un progetto di “società civile” che si scontra in realtà con la società dei cittadini; ed è, ancora una volta, in nome della democrazia.
Alla fine del XX secolo, e attualmente, il fenomeno autoritario si è spostato dall’Europa verso i paesi della “periferia". In questo caso, il fenomeno autoritario è giustificato dalla questione della minaccia che pesa sulla sovranità “nazionale” o meglio si proietta come una diga contro la marea della cosiddetta “mondializzazione”. Ma, in fondo, risponde al deficit antropocentrico delle società del “Terzo Mondo”.
Nel nuovo contesto della “mondializzazione”, il complesso egemonico che domina il mondo non ha più bisogno di controllare i paesi d’importanza strategica per mezzo di una dittatura. L’iniziativa è passata dallo Stato sovrano alla sovranità politica dei “mercati”, che si esprime con il progetto di “governance”. È quindi con il governo dei “mercati”, attraverso la “società civile”, soprattutto, che si svolge il lavoro che, una volta, era necessariamente realizzato attraverso la deviazione autoritaria del sistema pre-rappresentativo.
5. La conclusione
Il fenomeno autoritario, più esattamente le sue espressioni assolutistiche e totalitarie, costituiscono degli stadi nel processo di transizione del mondo europeo, dal dispotismo a un antropocentrismo primario, della modernità. L’assolutismo copre tutta l’Europa ; il totalitarismo ad eccezione dell’Italia, si applica a delle società che, per non aver conosciuto il cosmosistema antropocentrico in piccola scala, si sono armonizzate tardivamente al passaggio del mondo all’antropocentrismo moderno: la società tedesca, principalmente, e quella russa. Il fenomeno dittatoriale, poi, appare sia come il prolungamento dei totalitarismi esistenti nel periodo tra le due Guerre, ovvero una sopravvivenza, sia come conseguenza del deficit democratico antropocentrico e del complesso egemonico della Guerra fredda, essenzialmente del mondo anglosassone.
Per poter spiegare le evoluzioni politiche che si aprono con la “mondializzazione”, bisogna prima di tutto essere coscienti della distinzione tra la politica che si sviluppa in termini di potenza nel contesto statocentrico, e la politica che si sviluppa all'interno dello Stato, concepita in termini di potere. In quest’ultimo caso, la politica è sottoposta a delle regole prestabilite all’interno delle quali si esercitano dei rapporti di forza.
Tale chiarimento spiega che cosa accade oggi. In effetti, la teoria del governo/società civile, è attualmente portata avanti per facilitare l’introduzione dei rapporti di potenza “interstatali” nutriti dal sistema economico, nella dinamica socio-politica dei paesi. Il sistema economico, acquistata un’autonomia di fronte allo Stato e un’ambizione di taglia cosmosistemica, è in grado di imporre la propria volontà sul processo politico interno degli Stati. Attualmente, la rottura quasi assoluta dell’equilibrio tra la società, la politica e il “mercato”, in favore di quest’ultimo, dominante al giorno d’oggi, rivela che il controllo del sistema politico continua ad essere una questione fondamentale. Una sfida che, ormai, non passa attraverso un’azione extra-istituzionale (come la manifestazione, lo sciopero, ecc.) a livello del sistema politico, ma per mezzo delle forze guidate dal “mercato”. Ciò dimostra che il ripristino dell’equilibrio si produrrà solamente attraverso l'integrazione della società dei cittadini nel sistema politico, ovvero attraverso la sua trasformazione in demos rappresentativo. In effetti, l’incontro della società con le forze di mediazione al di fuori del sistema nella dinamica politica non è più operativo. Ecco la prova, quindi, che i sistemi familiari alla modernità, autoritari e pre-rappresentativi, devono essere considerati come assolutamente superati. Tutto ciò dimostra anche che d’ora in poi le società sono minacciate non dai totalitarismi o dagli autoritarismi, ma dall’appropriazione totale dello Stato da parte delle forze del “mercato”.
[1] Con antropocentrismo definisco le società costituite in termini di libertà, almeno la libertà individuale. La democrazia rappresenta l’ultimo stadio di completamento antropocentrico.
[2] Per una tipologia dell’evoluzione delle società antropocentriche, come qui intese, si vedano i miei lavori, Le cosmosystème hellénique. t. A, La période statocentrique, Athènes, 2006 et La démocratie comme liberté. Démocratie et représentation, Athènes, 2007.
[3] A iniziare da B. Constant, De la liberté des Anciens comparée à celle des Modernes, in Écrits politiques, Paris, Gallimard/Folio, 1997, pp. 591-619. Vedere anche F. de Coulanges, La cité antique. Études sur la culture, le droit les institutions de la Grèce, Paris, Durand, 1864; G. Sartori, Théorie de la démocratie, Paris, A. Colin, 1973. H. Lefebvre, Introduction à la modernité, Paris, Les éd. de Minuit, 1962; R. Muchembled, L'invention de l'homme moderne. Culture et sensibilités en France du VIe au XVIIIe siècle, Paris, Fayard, 1988; J. Rawls, Justice et démocratie, Paris, Seuil, 1993; dello stesso, Political Liberalism, New York, Columbia University Press, 1993.
[4] H. Arendt, Essais sur la révolution, Paris, Gallimard, 1967; G. Haarscher, M. Telò (dir), Après la révolution, Bruxelles, Editions de l'Université de Bruxelles, 1993.
[5] Tra gli altri, P. Schmitter, Groupes d’intérêt et consolidation démocratique en Europe Méridionale, in “Pôle Sud”, n. 3, 1995.
[6] Vedere per maggiori dettagli, il mio libro Systèmes économiques et liberté, Ed. Sideris, Athènes, 2010.
[7] A. Bullock, Hitler: A study in Tyranny, Londra, Odhams, 1962. R. Aron, Démocratie et totalitarisme, Paris, Gallimard, 1965. P. Milza, Le fascisme italien et la vision du futur, “Revue d’histoire, Vingtième Siècle”, n. 1, 1984.
[8] Vedere G. Contogeorgis, Le phénomène autoritaire. Essais d'interprétation, Atene, Papazissis, 2003; dello stesso, La Grèce en politique (dir), in "Pôle Sud", n. 18, 2003; e anche, Histoire de la Grèce, Paris, Hatier, 1992.
[9] P. Schmitter, Groupes d’intérêt et consolidation démocratique en Europe Méridionale, cit. . Vedere anche, Ν. Mouzelis, Politics in the Semi-Periphery. Early Parliamentarism and Late Industrialization in the Balkans and Latin America, London, MacMillan, 1980. Tuttavia, il primo ad aver introdotto la scissione "nord-sud" per spiegare il fenomeno autoritario, come anche la dimensione economica dal punto di vista dello sviluppo è Nicos Poulantzas, nel suo libro La Crise des dictatures: Portugal, Grèce, Espagne, Paris, Maspéro, 1995.
[10] R.G. Schwartzenberg, Sociologie Politique, Paris, Montchrestien, 1977, pp. 177; W. W. Rostow, The stages of Economic Growth, Cambridge, Cambridge University Press, 1960; R. Dahl, A Preface to Democratic Theory, Chicago, University of Chicago Press, 1956.
[11] J. Lagroye, Sociologie politique, Paris, Presses de la Fondation Nationale des Sciences Politiques & Dalloz, 1993, pp. 294 e segg. ; P. Annick, La socialisation politique. Défense et illustration, in M. Grawitz, J. Leca (dir.), Traité de science politique, t 3: L’action politique, Paris, PUF, pp. 165-235.
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